lunedì 22 ottobre 2012

Teaser monday - Dentro o fuori




LA LUCE gli feriva gli occhi, ma non poteva stringerli più di così. Avrebbe voluto tapparsi anche le orecchie, per proteggersi da quei BIP infernali.
“È sveglio?” chiese una voce acuta, femminile.
Kurt rabbrividì.
“Su, è ora di svegliarsi.”
I BIP erano ritmici, regolari… come un battito cardiaco. Giusto. Avrebbe dovuto capirlo subito – dall’odore intenso di disinfettante – che si trovava in ospedale. I macchinari a cui era collegato dovevano aver segnalato, in qualche modo, il suo risveglio.
“Che è successo?” Cristo santo. Quella non era la sua voce – era la voce di uno che si era pappato sabbia a colazione. Parlare gli faceva un male cane.
“Ce la fa ad aprire gli occhi, detective O’Donnell?”
Col cazzo. “Troppa luce,” riuscì a mormorare. Una fitta di dolore prese a pulsargli nelle tempie. Altre parti del corpo minacciavano di imitarla; non che la cosa lo entusiasmasse – ma che diavolo, almeno non era morto.
La luce si abbassò, e Kurt provò a sollevare le palpebre. Un’infermiera – si sforzò di metterla a fuoco – con degli orsetti sul camice teneva in mano una cartellina e ci scribacchiava sopra qualcosa, con la penna più rumorosa del mondo.
“Sete.”
Nonostante la voce da gessetto sulla lavagna, la donna gli sorrise comprensiva. “Lo so. Ma non posso darle niente finché il dottore non la visita.”
Gli diede un buffetto sulla spalla e uscì dalla stanza. Le scarpe di gomma cigolavano, e Kurt rabbrividì.
Cosa diavolo era successo?
Provò a muoversi con cautela, arto per arto, in cerca del dolore. Niente superava il pulsare alla testa, ma anche la gamba e il braccio sinistri non erano esattamente in forma. Si guardò intorno, ma non trovò niente che potesse indicargli la data o l’ora. L’ultima cosa che ricordava era di essere salito in macchina con Ben dopo aver ricevuto la soffiata. Avevano avuto un incidente? Gli avevano sparato? Lo sforzo gli causò un dolore atroce alla testa. Sospirò e provò a rilassarsi, per quanto lo consentisse quella specie di blocco di granito che l’ospedale chiamava “materasso”.
Moriva dalla voglia di strapparsi la flebo e uscire in corridoio a chiedere spiegazioni a qualcuno; al tempo stesso, però, sospettava che un’azione del genere gli avrebbe causato ancora più dolore. Non si era mai sentito così male in vita sua – non ci teneva a scoprire se la situazione poteva peggiorare.
Gli giunse alle orecchie il chiacchiericcio inconfondibile di una coppia irlandese irata. Si rilassò ancora di più. Se anche i suoi genitori non fossero riusciti a convincere il dottore a visitarlo subito, bastava aspettare l’arrivo dei vari fratelli e sorelle A quel punto, di certo, lo staff ospedaliero avrebbe fatto di tutto per sbatterlo fuori il prima possibile.
“Lì dentro c’è mio figlio!”
Oh. Sempre più vicini. Kurt pregò che a sua madre venisse concesso l’ingresso o somministrato del valium, perché era già abbastanza su di giri, e la sua voce sembrava ballargli un tip-tap nella testa.
“Signora O’Donnell, signor O’Donnell. Sono certo che il medico sta arrivando. Venite un attimo con me in sala d’aspetto.”
Quella voce sicura apparteneva al suo capo. Che ci faceva lì? Voleva forse dire che l’incidente – di qualunque cosa si trattasse – c’entrava qualcosa con la soffiata? Perché non riusciva a ricordare? E dove cazzo era Ben?
Kurt si portò una mano sul capo e strofinò piano. Buon Dio, aveva bisogno di un anestetico – oppure, in alternativa, una bella decapitazione.
“Detective O’Donnell.” Una donna minuscola, col camice bianco, entrò nella stanza. “Sono la dottoressa Sarwa. Come va la testa?”
“Fa male.” Riecco quella voce da corvo. “Che è successo?”
“Fra un attimo. Sente nausea?”
“No, non direi.” Non era una bugia, anche se non avrebbe ingerito cibo per niente al mondo.
La porta si aprì, ma non entrò un parente. Era il suo capo.
“Signore?” La nausea lo assalì, e il dolore alla testa prese a pulsare più rapido.
“O’Donnell. Sono lieto di vedere che hai ripreso conoscenza. Purtroppo ho brutte notizie.” Come se non si fosse già capito dall’espressione seria.
“Quali notizie, signore?” Sentì sua madre stringergli forte la mano. Suo padre si allontanò e si mise a guardare fuori dalla finestra.
“Ricordi cosa stavi facendo quando c’è stata l’esplosione?”
Esplosione? Ecco il perché delle schegge. Il resto era avvolto nel buio. “Non ricordo nessuna esplosione. Abbiamo ricevuto una soffiata da Gustav e poi sono salito in macchina con Ben. La macchina è esplosa?” Perché non c’era Ben a spiegargli tutto questo? La nausea divenne un dolore acuto, lancinante.
“L’edificio indicato dalla soffiata era una trappola. Siamo quasi certi che ci fosse la mano di un criminale mandato dietro le sbarre da Ben quando era ancora nell’antidroga – si fa chiamare Novi, l’Orso Russo. È uscito due mesi fa con la condizionale.”
Novi. Kurt aveva già sentito parlare di lui – era un trafficante di droga e uno spacciatore, fra le altre cose. Ma l’espressione del commissario Nadar gli disse che non era finita.
“Mi dispiace, Kurt. Ben non ce l’ha fatta.”
Morto? Kurt trasalì. Frammenti di ricordi lo assalirono, e si sentì sprofondare nel rumore.
“Tesoro, mi dispiace tanto,” bisbigliò sua mamma. I suoi avevano incontrato Ben un paio di volte. Ben era un lupo solitario, e anche dopo tre anni insieme, Kurt non sapeva granché della sua vita privata. Però era il suo partner. Lavoravano bene insieme, e Kurt lo riteneva un amico. I quindici anni di differenza non contavano niente.
Sentì gli occhi riempirsi di lacrime, e distolse lo sguardo da Nadar, rivolgendosi a sua mamma. La donna tirò fuori un fazzoletto dalla borsa e gli asciugò il viso.
Con un sospiro profondo, tornò a guardare il suo capo. “Quanto tempo è passato? Avete informato la sua famiglia?” Per quanto ne sapeva, Ben aveva solo la madre. Voleva essere lui a darle la notizia; era compito suo.
“Ho provveduto mentre eri in sala operatoria. Non si sa con certezza, ma il funerale dovrebbe svolgersi sabato. Dovrai mettercela tutta per guarire, se vuoi essere presente.”
“Sì, signore.” Ci sarebbe andato, a costo di trascinarsi dietro la flebo e tutti i macchinari. E poi si sarebbe impegnato a sbattere l’Orso Russo in galera.
“Buona giornata, signori O’Donnell.” L’ispettore Nadar fece un cenno col capo; poi girò sui tacchi e uscì dalla stanza.
“Ha ragione, tesoro. Devi rimetterti. Non so cos’avrei fatto se ti avessi perduto.”
In quella irruppero nella stanza i suoi vari fratelli e sorelle – tutti dispiaciuti per Ben, e felici che Kurt stesse bene. Pretesero di abbracciarlo e baciarlo, uno per uno, non senza qualche problema; ma non sarebbe stata la sua famiglia, senza baci e abbracci. Qualcuno di loro doveva aver terrorizzato le infermiere; Kurt era quasi certo che nessun altro paziente potesse ricevere otto persone per volta. Ma era felice che fossero lì. Sperò che ci fosse qualcuno con la madre di Ben, in caso la donna fosse abbastanza lucida da capire quanto era accaduto.
“Mamma, voglio andare a casa.”
“Lo so, piccolo. I medici vogliono tenerti qui un altro giorno, ma domani veniamo io e papà a prenderti. Erin ti ha già preparato la stanza, mentre venivamo qui. Ci prenderemo noi cura di te.”
Più tardi avrebbe ringraziato sua sorella. Si sentiva stupido a volere le attenzioni di mamma, alla sua età, ma l’idea di tornare al suo appartamento sterile lo faceva solo piangere di più. Non aveva una fidanzata; non aveva nessuno che frequentasse regolarmente. Ma aveva una grande, amorevole famiglia.
La dottoressa Sarwa annuì convinta e scrisse qualcosa sulla cartella. Poi afferrò le coperte e gli scoprì il fianco sinistro. Kurt si sforzò di guardare, anche se il movimento gli causava dolore agli occhi, e vide che il braccio era tutto fasciato. Che fosse rotto?
La dottoressa rimosse la garza portando alla luce una cicatrice irregolare, sull’interno del braccio, da gomito a polso, tenuta insieme da una serie di punti neri.
“Lei è un uomo fortunato, detective O’Donnell,” mormorò la dottoressa mentre tastava la… era difficile chiamarla incisione. Nessun chirurgo degno di questo nome avrebbe mai eseguito un taglio così malfatto, irregolare. “Non si è rotto neanche un osso.”
E quella la chiamava fortuna? Dopo aver visto la ferita, il braccio prese a pulsargli a ritmo col cervello.
Kurt inspirò a fondo. Sentiva la gola troppo asciutta per sprecare parole. “La gamba?”
La donna fece una mezza risata beffarda. “Niente di serio, solo un ginocchio slogato.”
“Ho sete.”
“Lo dirò all’infermiera. Le darà un po’ di succo.” Si mise a rifare la fasciatura. “Ha un bell’aspetto. Okay, le faccio un riassunto veloce. Ha sbattuto la testa, e le schegge le hanno tagliato il braccio.”
Kurt rise per un attimo, ma smise non appena il battito nella sua testa divenne un rullo di tamburi. “Opinione professionale?”
La dottoressa Sarwa gli sorrise debolmente. “Potrei scendere nei dettagli, ma è inutile farlo adesso, è ancora troppo confuso. Le schegge hanno causato un bel danno – sarebbe morto dissanguato se non l’avessimo operato subito. Però poteva andarle molto peggio. Tornerò più tardi a spiegarle tutto per bene.”
Kurt dovette assopirsi per qualche minuto, perché gli parve che l’infermiera fosse subito lì a portargli il succo. Seguirono mamma e papà.
“Tesoro! Oh, piccolo mio!” Mamma andò subito sul lato del letto dove non c’era l’infermiera. In quel momento lo interessava di più la cannuccia in avvicinamento. Sentì il profumo acido di mela e gli venne subito l’acquolina in quella bocca asciutta come cotone.
Mamma gli prese la mano e la strinse forte. Sentì le lacrime bagnargli il dorso. Era la prima volta che… beh, di certo non la prima volta che si faceva male. Con sei fratelli più vecchi, aveva una certa esperienza con lividi e ossa rotte. Ma questa era la prima volta che rimaneva ferito sul lavoro – doveva essere lavoro, per forza. Non gli veniva in mente un altro posto dove poteva essersi ferito con delle schegge.
Quando la sete si fu placata, se non estinta, si voltò verso sua madre. L’infermiera uscì, e papà prese il suo posto.
“Kurt, tesoro…”
“Mamma, sto bene.”
“No che non stai bene.”
Kurt fece una smorfia, e suo padre disse piano “Deirdre, non strillare. Ricordati cos’ha detto la dottoressa.”
“Ma non sta affatto bene, Sean.” Si chinò a baciargli la guancia. “Mi dispiace, piccolo.”
“Come ti senti, figliolo?” Suo padre fece per toccargli il braccio fasciato, ma optò invece per la spalla.
“Indolenzito.” Ma adesso che si sentiva più sveglio, era pronto per andare a casa. Saputo qual era il problema fisico, il dolore sembrava essersi acquietato. “Papà, cos’è successo?”
I suoi genitori si scambiarono un’occhiata. Mamma prese a piangere.
“Beh?” Non li aveva mai visti senza parole.
“Tesoro, avresti potuto morire.” Sua madre aveva la voce spezzata.
Il livello dei decibel fuori dalla stanza aumentò. Dovevano essere arrivati gli altri parenti. E che diavolo – non stava peggio di quando Ian lo aveva sfidato ad arrampicarsi su quell’albero marcio in giardino. Quella volta si era spaccato un braccio e una gamba. Stavolta era solo un brutto taglio, una botta in testa e un ginocchio slogato. Cos’era tutto questo dramma? Si comportavano come se avesse avuto undici anni, invece che trentuno. Perché doveva essere proprio lui il figlio minore? 


Dentro o fuori, KC Burn
Traduzione: Martina Nealli
Dreamspinner Press
Pagine: 231
Cover artist: Reese Dante

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