LA LUCE gli feriva gli occhi, ma non poteva stringerli
più di così. Avrebbe voluto tapparsi anche le orecchie, per proteggersi da quei
BIP infernali.
“È sveglio?” chiese una voce acuta, femminile.
Kurt rabbrividì.
“Su, è ora di svegliarsi.”
I BIP erano ritmici, regolari… come un battito cardiaco.
Giusto. Avrebbe dovuto capirlo subito – dall’odore intenso di disinfettante –
che si trovava in ospedale. I macchinari a cui era collegato dovevano aver
segnalato, in qualche modo, il suo risveglio.
“Che è successo?” Cristo santo. Quella non era la sua
voce – era la voce di uno che si era pappato sabbia a colazione. Parlare gli
faceva un male cane.
“Ce la fa ad aprire gli occhi, detective O’Donnell?”
Col cazzo. “Troppa luce,” riuscì a mormorare. Una fitta
di dolore prese a pulsargli nelle tempie. Altre parti del corpo minacciavano di
imitarla; non che la cosa lo entusiasmasse – ma che diavolo, almeno non era
morto.
La luce si abbassò, e Kurt provò a sollevare le palpebre.
Un’infermiera – si sforzò di metterla a fuoco – con degli orsetti sul camice
teneva in mano una cartellina e ci scribacchiava sopra qualcosa, con la penna
più rumorosa del mondo.
“Sete.”
Nonostante la voce da gessetto sulla lavagna, la donna
gli sorrise comprensiva. “Lo so. Ma non posso darle niente finché il dottore
non la visita.”
Gli diede un buffetto sulla spalla e uscì dalla stanza.
Le scarpe di gomma cigolavano, e Kurt rabbrividì.
Cosa diavolo era successo?
Provò a muoversi con cautela, arto per arto, in cerca del
dolore. Niente superava il pulsare alla testa, ma anche la gamba e il braccio
sinistri non erano esattamente in forma. Si guardò intorno, ma non trovò niente
che potesse indicargli la data o l’ora. L’ultima cosa che ricordava era di
essere salito in macchina con Ben dopo aver ricevuto la soffiata. Avevano avuto
un incidente? Gli avevano sparato? Lo sforzo gli causò un dolore atroce alla
testa. Sospirò e provò a rilassarsi, per quanto lo consentisse quella specie di
blocco di granito che l’ospedale chiamava “materasso”.
Moriva dalla voglia di strapparsi la flebo e uscire in
corridoio a chiedere spiegazioni a qualcuno; al tempo stesso, però, sospettava
che un’azione del genere gli avrebbe causato ancora più dolore. Non si era mai
sentito così male in vita sua – non ci teneva a scoprire se la situazione
poteva peggiorare.
Gli giunse alle orecchie il chiacchiericcio
inconfondibile di una coppia irlandese irata. Si rilassò ancora di più. Se
anche i suoi genitori non fossero riusciti a convincere il dottore a visitarlo
subito, bastava aspettare l’arrivo dei vari fratelli e sorelle A quel punto, di
certo, lo staff ospedaliero avrebbe fatto di tutto per sbatterlo fuori il prima
possibile.
“Lì dentro c’è mio figlio!”
Oh. Sempre più vicini. Kurt pregò che a sua madre venisse
concesso l’ingresso o somministrato del valium, perché era già abbastanza su di
giri, e la sua voce sembrava ballargli un tip-tap nella testa.
“Signora O’Donnell, signor O’Donnell. Sono certo che il
medico sta arrivando. Venite un attimo con me in sala d’aspetto.”
Quella voce sicura apparteneva al suo capo. Che ci faceva
lì? Voleva forse dire che l’incidente – di qualunque cosa si trattasse –
c’entrava qualcosa con la soffiata? Perché non riusciva a ricordare? E dove
cazzo era Ben?
Kurt si portò una mano sul capo e strofinò piano. Buon
Dio, aveva bisogno di un anestetico – oppure, in alternativa, una bella
decapitazione.
“Detective O’Donnell.” Una donna minuscola, col camice
bianco, entrò nella stanza. “Sono la dottoressa Sarwa. Come va la testa?”
“Fa male.” Riecco quella voce da corvo. “Che è successo?”
“Fra un attimo. Sente nausea?”
“No, non direi.” Non era una bugia, anche se non avrebbe
ingerito cibo per niente al mondo.
La porta si aprì, ma non entrò un parente. Era il suo capo.
“Signore?” La nausea lo assalì, e il dolore alla testa
prese a pulsare più rapido.
“O’Donnell. Sono lieto di vedere che hai ripreso
conoscenza. Purtroppo ho brutte notizie.” Come se non si fosse già capito
dall’espressione seria.
“Quali notizie, signore?” Sentì sua madre stringergli
forte la mano. Suo padre si allontanò e si mise a guardare fuori dalla
finestra.
“Ricordi cosa stavi facendo quando c’è stata
l’esplosione?”
Esplosione? Ecco il perché delle schegge. Il resto era
avvolto nel buio. “Non ricordo nessuna esplosione. Abbiamo ricevuto una
soffiata da Gustav e poi sono salito in macchina con Ben. La macchina è
esplosa?” Perché non c’era Ben a spiegargli tutto questo? La nausea divenne un
dolore acuto, lancinante.
“L’edificio indicato dalla soffiata era una trappola.
Siamo quasi certi che ci fosse la mano di un criminale mandato dietro le sbarre
da Ben quando era ancora nell’antidroga – si fa chiamare Novi, l’Orso Russo. È
uscito due mesi fa con la condizionale.”
Novi. Kurt aveva già sentito parlare di lui – era un
trafficante di droga e uno spacciatore, fra le altre cose. Ma l’espressione del
commissario Nadar gli disse che non era finita.
“Mi dispiace, Kurt. Ben non ce l’ha fatta.”
Morto? Kurt trasalì. Frammenti di ricordi lo assalirono,
e si sentì sprofondare nel rumore.
“Tesoro, mi dispiace tanto,” bisbigliò sua mamma. I suoi
avevano incontrato Ben un paio di volte. Ben era un lupo solitario, e anche
dopo tre anni insieme, Kurt non sapeva granché della sua vita privata. Però era
il suo partner. Lavoravano bene insieme, e Kurt lo riteneva un amico. I
quindici anni di differenza non contavano niente.
Sentì gli occhi riempirsi di lacrime, e distolse lo
sguardo da Nadar, rivolgendosi a sua mamma. La donna tirò fuori un fazzoletto
dalla borsa e gli asciugò il viso.
Con un sospiro profondo, tornò a guardare il suo capo.
“Quanto tempo è passato? Avete informato la sua famiglia?” Per quanto ne
sapeva, Ben aveva solo la madre. Voleva essere lui a darle la notizia; era
compito suo.
“Ho provveduto mentre eri in sala operatoria. Non si sa
con certezza, ma il funerale dovrebbe svolgersi sabato. Dovrai mettercela tutta
per guarire, se vuoi essere presente.”
“Sì, signore.” Ci sarebbe andato, a costo di trascinarsi
dietro la flebo e tutti i macchinari. E poi si sarebbe impegnato a sbattere
l’Orso Russo in galera.
“Buona giornata, signori O’Donnell.” L’ispettore Nadar
fece un cenno col capo; poi girò sui tacchi e uscì dalla stanza.
“Ha ragione, tesoro. Devi rimetterti. Non so cos’avrei
fatto se ti avessi perduto.”
In quella irruppero nella stanza i suoi vari fratelli e
sorelle – tutti dispiaciuti per Ben, e felici che Kurt stesse bene. Pretesero
di abbracciarlo e baciarlo, uno per uno, non senza qualche problema; ma non
sarebbe stata la sua famiglia, senza baci e abbracci. Qualcuno di loro doveva
aver terrorizzato le infermiere; Kurt era quasi certo che nessun altro paziente
potesse ricevere otto persone per volta. Ma era felice che fossero lì. Sperò
che ci fosse qualcuno con la madre di Ben, in caso la donna fosse abbastanza
lucida da capire quanto era accaduto.
“Mamma, voglio andare a casa.”
“Lo so, piccolo. I medici vogliono tenerti qui un altro
giorno, ma domani veniamo io e papà a prenderti. Erin ti ha già preparato la
stanza, mentre venivamo qui. Ci prenderemo noi cura di te.”
Più tardi avrebbe ringraziato sua sorella. Si sentiva
stupido a volere le attenzioni di mamma, alla sua età, ma l’idea di tornare al
suo appartamento sterile lo faceva solo piangere di più. Non aveva una
fidanzata; non aveva nessuno che frequentasse regolarmente. Ma aveva una
grande, amorevole famiglia.
La dottoressa Sarwa annuì convinta e scrisse qualcosa
sulla cartella. Poi afferrò le coperte e gli scoprì il fianco sinistro. Kurt si
sforzò di guardare, anche se il movimento gli causava dolore agli occhi, e vide
che il braccio era tutto fasciato. Che fosse rotto?
La dottoressa rimosse la garza portando alla luce una
cicatrice irregolare, sull’interno del braccio, da gomito a polso, tenuta
insieme da una serie di punti neri.
“Lei è un uomo fortunato, detective O’Donnell,” mormorò
la dottoressa mentre tastava la… era difficile chiamarla incisione. Nessun
chirurgo degno di questo nome avrebbe mai eseguito un taglio così malfatto,
irregolare. “Non si è rotto neanche un osso.”
E quella la chiamava fortuna? Dopo aver visto la ferita,
il braccio prese a pulsargli a ritmo col cervello.
Kurt inspirò a fondo. Sentiva la gola troppo asciutta per
sprecare parole. “La gamba?”
La donna fece una mezza risata beffarda. “Niente di
serio, solo un ginocchio slogato.”
“Ho sete.”
“Lo dirò all’infermiera. Le darà un po’ di succo.” Si
mise a rifare la fasciatura. “Ha un bell’aspetto. Okay, le faccio un riassunto
veloce. Ha sbattuto la testa, e le schegge le hanno tagliato il braccio.”
Kurt rise per un attimo, ma smise non appena il battito
nella sua testa divenne un rullo di tamburi. “Opinione professionale?”
La dottoressa Sarwa gli sorrise debolmente. “Potrei
scendere nei dettagli, ma è inutile farlo adesso, è ancora troppo confuso. Le
schegge hanno causato un bel danno – sarebbe morto dissanguato se non
l’avessimo operato subito. Però poteva andarle molto peggio. Tornerò più tardi
a spiegarle tutto per bene.”
Kurt dovette assopirsi per qualche minuto, perché gli
parve che l’infermiera fosse subito lì a portargli il succo. Seguirono mamma e
papà.
“Tesoro! Oh, piccolo mio!” Mamma andò subito sul lato del
letto dove non c’era l’infermiera. In quel momento lo interessava di più la
cannuccia in avvicinamento. Sentì il profumo acido di mela e gli venne subito
l’acquolina in quella bocca asciutta come cotone.
Mamma gli prese la mano e la strinse forte. Sentì le
lacrime bagnargli il dorso. Era la prima volta che… beh, di certo non la prima volta
che si faceva male. Con sei fratelli più vecchi, aveva una certa esperienza con
lividi e ossa rotte. Ma questa era la prima volta che rimaneva ferito sul
lavoro – doveva essere lavoro, per forza. Non gli veniva in mente un altro
posto dove poteva essersi ferito con delle schegge.
Quando la sete si fu placata, se non estinta, si voltò
verso sua madre. L’infermiera uscì, e papà prese il suo posto.
“Kurt, tesoro…”
“Mamma, sto bene.”
“No che non stai bene.”
Kurt fece una smorfia, e suo padre disse piano “Deirdre,
non strillare. Ricordati cos’ha detto la dottoressa.”
“Ma non sta affatto bene, Sean.” Si chinò a baciargli la
guancia. “Mi dispiace, piccolo.”
“Come ti senti, figliolo?” Suo padre fece per toccargli
il braccio fasciato, ma optò invece per la spalla.
“Indolenzito.” Ma adesso che si sentiva più sveglio, era
pronto per andare a casa. Saputo qual era il problema fisico, il dolore
sembrava essersi acquietato. “Papà, cos’è successo?”
I suoi genitori si scambiarono un’occhiata. Mamma prese a
piangere.
“Beh?” Non li aveva mai visti senza parole.
“Tesoro, avresti potuto morire.” Sua madre aveva la voce
spezzata.
Il livello dei decibel fuori dalla stanza aumentò.
Dovevano essere arrivati gli altri parenti. E che diavolo – non stava peggio di
quando Ian lo aveva sfidato ad arrampicarsi su quell’albero marcio in giardino.
Quella volta si era spaccato un braccio e una gamba. Stavolta era solo un
brutto taglio, una botta in testa e un ginocchio slogato. Cos’era tutto questo
dramma? Si comportavano come se avesse avuto undici anni, invece che trentuno.
Perché doveva essere proprio lui il figlio minore?
Dentro o fuori, KC Burn
Traduzione: Martina Nealli
Dreamspinner Press
Pagine: 231
Cover artist: Reese Dante